L’umana di Cesarino tornò a casa con le buste della spesa e il gatto, come al solito, procedeva all’ispezione degli acquisti infilando la testa nelle buste. Le solite cose: frutta, bagnoschiuma, crocchette al tacchino, pelati, biscotti… e quello?!? Cos’era?
«Sì, sì, sta sera abbiamo un appuntamento speciale, quello non è per te.»
“Cos’è quell’affare puzzolente? Quale appuntamento, con chi?!”
Ma Elea non aggiunse altro. Cesarino, indispettito, rimase sulle sue tutto il pomeriggio. Non era difficile immaginare che l’appuntamento era con Sa’, quelle due umane erano sempre insieme, ma perché chiamarlo “appuntamento speciale”?
La risposta non si fece molto attendere. Qualche ora più tardi, infatti, Elea iniziò a preparare la tavola per la cena, aggiunse un coperto per una persona e impacchettò quell’oggetto puzzolente che era nella busta della spesa: era un regalo quindi. Per l’invitato? Per Sa’?!?
Poco dopo il campanello suonò e Cesarino, come suo solito andò a nascondersi dietro il divano, la sua posizione strategica per accogliere gli invitati perché da là poteva guardare senza essere visto, nessuno poteva disturbarlo, era come essere invisibile.
Come giustamente Cesarino aveva immaginato, dalla porta entrò Sa’, ma insieme arrivò un odore nuovo, un odore che l’accorto naso felino ci mise pochissimo ad identificare: quello era odore di cane. UN CANE?!?!
Sa’ aveva con sé un cane?
Chi era? Da dove veniva? Era gentile? Avrebbe messo sottosopra l’appartamento? Avrebbe sbocconcellato tutte le scarpe? Sbavava?
A Cesarino già gli si alzavano i peli sulla schiena.
“Stai calmo” pensò tra sé e sé “magari non è così male, ci sono tanti cani educati e amichevoli con i gatti… se non fosse così Sa’ non l’avrebbe mai portato qui, no?”
Cesarino si mise in posizione di difesa, con le zampe pronte allo scatto, ma per il momento decise di restare là nascosto e osservare.
Le due umane si sedettero a tavola, ma prima Elea si abbassò per salutare il cane, che sembrava già conoscere. Accucciata verso il pavimento, Elea approfittò per scartare il pacchetto che aveva confezionato poco prima: il cane aveva ricevuto un osso puzzolente, sembrava contento perché scodinzolava, ma poi si limitò poi ad accucciarsi sotto il tavolo ai piedi di Sa’, con le orecchie basse e il muso tra le zampe, con l’osso odorante a pochi centimetri dal naso.
“Questo è proprio strano” pensò Cesarino “ i cani saltano, abbaiano, leccano e perdono la testa quando sono contenti… questo qua sembra che si sia sgonfiato come un palloncino. Sarà stanco? Non gli piace il regalo?”
Durante la cena il cane non si mosse di un palmo, come se fosse incollato al pavimento; il gatto sempre in osservazione da dietro il divano non gli staccò gli occhi di dosso.
Alla fine Cesarino si decise, era davvero il caso di andarlo ad annusare da vicino.
Uscì dal suo nascondiglio, prima con una zampa, senza far rumore. Poi mise fuori anche la testa, sempre con gli occhi fissi verso il cane: se mai quella bestia avesse deciso di fare qualche pazzia Cesarino aveva i muscoli contratti per scappare velocemente sopra l’armadio e salvarsi, era comunque un cane quattro volte più grande di lui, una zuffa era da evitare.
Il gatto continuava ad avvicinarsi lentissimamente, il cane sicuramente l’aveva visto ma ancora non si muoveva. L’avvicinarsi dei due animali aveva acceso l’interesse anche di Elea e Sa’ che avevano smesso di chiacchierare e assistevano alla scena.
Cesarino era teso come una corda di violino e continuava il suo avvicinamento; il cane sembrava quasi completamente disinteressato e se ne stava sempre nella sua solita posizione. Il gatto arrivò così vicino che poté annusare il collo del cane, poi le orecchie infine il naso umidiccio, ma sempre restando in allerta con una zampa sollevata in aria nel caso fosse stato necessario tirare una graffiata. Poi Cesarino fece un passo indietro e si sedette iniziando ad agitare la coda come fanno i gatti quando sono un po’ nervosi.
Vedendo che non si scatenava nessuna rissa o inseguimento, come del resto erano quasi sicure, Elea e Sa’ continuarono la loro cena e Cesarino approfittò per miagolare al cane.
«Beh? Non dici niente?»
Il cane non si degnò nemmeno di girare lo sguardo.
«Ma come, sei invitato a casa, ti fanno pure un regalo e tu…? Non un grazie, non un sorriso… niente… te ne stai impalato sotto il tavolo senza fare o dire niente. Tanto vale stare con un pupazzo»
Il cane girò la testa e guardò a lungo il gatto, ma non parlò.
«Ancora niente? Bel maleducato! L’ho sempre detto io che i cani sono degli zoticoni, mica raffinati come noi gatti. Si può sapere come ti chiami almeno?»
« @ʣà## §Ŷɷ »
Cesarino sgranò gli occhi e rimase senza parole, poi il cane ripeté con voce sommessa: « @ʣà## §Ŷɷ ».
«Ho capito! Tu non sei di qui! Ma che accidenti di lingua parli?»
Il cane non rispose, riprese la sua posa da statua e ammutolì. Ma Cesarino era un gatto testardo e pensava di sapere quale poteva essere il modo giusto per farlo muovere e parlare. Andò in camera e prese dal suo nascondiglio segreto una parte di scorta di crocchette super concentrate al salmone, quelle che la sua umana gli dava una per volta e solo ogni tanto perché ipercaloriche, un corrispondente di caramelle per gli umani, che Cesarino non mangiava mai tutte subito, ne teneva qualcuna di scorta per i casi d’emergenza come questi.
Si ripresentò dal cane e gliele fece annusare. L’effetto fu quasi immediato.
«Eh-eh! Lo sapevo! Senti l’odore, la fragranza di queste belle crocchettine… dai su, sii buono, vieni con me.»
Il cane come quasi ipnotizzato seguì Cesarino e andarono sotto la finestra lasciata socchiusa.
«Allora, non vuoi fare uno sforzo e dirmi come ti chiami e da dove vieni?»
«ʋϞ%^+ §Ŷɷ Mi chiama Wild, qui sbagliati e chiamato me Why, ma io preferisce.»
Finalmente da quella bocca canina uscì questa prima frase con un tremendo accento a metà tra il russo e il tedesco.
«AAAhhhhhh! Allora vedi che ci capiamo! Tieni mangia un’altra crocchetta, vedrai che ti sbloccherà ancora un po’. Ti va di dirmi da dove vieni e come sei finito qui?»
Why sbranava una crocchetta dietro l’altra, sembrava notevolmente più interessato agli snack che al parlare e Cesarino che dovette dagli un ultimatum, anche perché non aveva più molte altre crocchette da offrire.
«No eh, così non va. Dai raccontami qualcosa…»
«Io venire da lontana, molto ya. Io camminato taaanto, in bosco, io scappato e poi perduto, io ffamato, ja, molto ffamato. Molto perduto e poi molto ffamato.
Poi umani che passa preso me e portato a canile, io restato là, io tRiste, tRiste e ffamato sempre. Poi Sa’ viene e porta a casa. Brava Sa’, ma io tRiste ancora, io no capisce, io no parla, io confusione. Io paura di mukke e fa incubi e dorme poco, ya.
Questa storia mia, ora tu da’ crocchino, ya.»
Cesarino fece fatica a capire questa storia raccontata tutta d’un fiato, con un sacco di errori e di parole inventate. Ma era curioso e poi quel cagnetto era simpatico, la storia era interessante e valeva la pena di una piccola indagine.
Dopo avergli dato una delle ultime crocchette gli disse: «Guarda, siamo fortunati: Elea ha dimenticato la finestra aperta, possiamo andare a fare un giro fuori, ma facciamo piano perché se ci sentono finiamo nei guai ancora prima di combinarli», Why iniziò a scodinzolare.
Un paio di salti furono sufficienti a entrambi per filarsela e ritrovarsi dopo una breve corsa nel parco vicino casa di Elea. Era autunno, fuori non faceva freddo e i due sistemarono accanto alla siepe, proteggendosi alla vista di eventuali passanti e di altri animali.
Cesarino stava per iniziare a parlare ma Why scattò di lato, il gatto si spaventò e gonfiò immediatamente tutta la sua pelliccia. Il cane si era messo a correre in tondo nel parco, così giusto per il gusto di correre, e mentre correva gridava. «Io corre, poi torna ja, uno minuto.»
“I cani sono proprio tonti” pensava Cesarino mentre si sgonfiava e si leccava le spalle per rimettersi apposto aspettando quel bietolone di cane.
«Io torna ora, ja. AdoRa correre. Ora io siede, tu da’ crocchetta.» disse Why srotolando la lingua per il fiatone. Cesarino iniziava a spazientirsi e forse per paura di una graffiata, vedendo una certa tensione nella posizione del gatto, Why si mise più composto e tirò dentro la lingua.
«Ecco, meglio. Ma dimmi, perché dici che hai paura delle mucche e che fai gli incubi?»
«Ὥớäwsd şaòx! Perchè tu dice mukka? Perchè tu vuoi che io pensa a mukka? Tu no simpatico niente! Correva felice io, ora io pensa a grasse mukke con campanaccio!» e così dicendo iniziò a mugolare.
«Ma com’è possibile che un cane come te abbia paura delle mucche? Quei grossi mammiferi bonaccioni che mangiano l’erba per le campagne… poi di mucche qui non ce n’è.»
«Tu smette oRa subito di dire la parola mukka! Io detto a te che viene da lontano, io scappare, io ffamato, io perso.»
A Cesarino gli ci volle un po’ per calmare Why e mandare via il pensiero delle mucche. A forza di lusinghe e insistenze il cane finì per accettare di raccontare la storia delle mucche: Cesarino lo persuase che parlare del proprio passato con un amico non solo gli avrebbe fatto bene, ma avrebbe anche allontanato le paure.
Why era nato in una fattoria di campagna, lontanissimo.
Lui, come i suoi tre fratelli, era destinato a diventare un cane da pastore, cioè un aiutante degli umani per tenere a bada gli animali che vanno al pascolo. In realtà i suoi genitori non erano di una di quelle razze che si prestano a questo mestiere, erano piuttosto cani da caccia, ma i loro umani li avevano addestrati e così avrebbero fatto con i cuccioli.
Why, che in origine si chiamava Wild (Wind, Wood, West i suoi fratelli), stava bene in campagna. Quando era cucciolo era libero di giocare e correre con i suoi fratellini e fare quello che gli pareva, era un vero spasso.
Ma compiuto un anno il suo umano iniziò a farlo lavorare e le cose cambiarono. Facendo a turno con i suoi fratelli, entrava entrava nel recinto delle pecore e i suoi genitori mostravano cosa si doveva fare: si trattava di rincorre le pecore, mordicchiarle se necessario e senza fargli male, per mandarle nel senso giusto e a seconda di dove voleva l’umano. Non era difficile, solo molto stancante. Se si faceva un buon lavoro si veniva ricompensati solo con un buffetto sulla testa, ma se si faceva qualche errore si rischiavano delle bastonate sul sedere e un pasto dimezzato.
Non era un lavoro difficile, le pecore erano animali un po’ tonti, era semplice farle andare dove si voleva.
Più complicato era con le testarde capre, e Wild dovette imparare a gestirle, dopo le pecore, prendendo un sacco di cornate. A fine giornata il risultato sempre il solito: un buon lavoro un buffetto sulla testa, una giornata storta bastonate sul sedere e cena dimezzata. Una vitaccia.
Ma il disastro arrivò quando Wild dovette affrontare le mucche.
Le mucche sembravano degli innocui erbivori, dei quadrupedi inoffensivi che ruminavano erba da mattina a sera, dei produttori mansueti di latte… ma non era così. A Wild non gli erano mai piaciute: già erano più grosse di lui almeno otto volte, in più non sopportava quei grossi e rumorosi campanacci che portavano al collo.
Quando ci si ritrovò la prima volta muso a muso aveva provato ad abbaiare per farle muovere, ma niente, quelle erano rimaste immobili. Un secondo abbaio, niente. Erano un gruppo di tre che dovevano raggiungere il resto della mandria e Wild pensò che magari mordicchiare la coda di una, come faceva con le pecore, poteva finalmente far muovere i bovini verso il resto del gruppo. Fece il giro verso i posteriori delle mucche, abbaiò un’ultima volta prendendo la mira e mordicchiò la coda di una delle sventurate che aveva davanti, facendo però un errore di calcolo: la coda delle mucche è praticamente sguarnita di pelo, non è come quella delle pecore avvolta da uno spesso strato di lana. Scatenò l’inferno.
Al morso la povera mucca iniziò a muggire forte dal dolore, le due mucche vicino si spaventarono e iniziarono a scalciare; tutte si girarono verso lo sfortunato Wild che non riusciva a capire il perché di tanta collera e iniziarono a caricarlo come se fossero tori. Il povero cane non ebbe altra scelta che fuggire guaendo.
Vederla dall’esterno la scena era quasi comica, soprattutto per i fratelli di Wild: un cane da pastore che correva a zampe levate, latrando, inseguito da tre mucche così infuriate che facevano suonare i loro campanacci come campane da chiesa, era da sbellicarsi.
Per mettere fine all’inseguimento fu necessario l’intervento dell’umano che dovette andare a recuperare prima le tre mucche, poi Wild che si era arrampicato sopra il ramo di un albero dalla paura.
Il brutto arrivò la sera quando l’umano prese a bastonate Wild per ben tre volte, e il peggio del peggio fu subire l’umiliazione di farsi prendere in giro per tutta la notte dai suoi tre fratelli.
A quel punto Wild prese una decisione definitiva: quella campagna, quella vita non faceva per lui, doveva andare via.
Non ci pensò più di due minuti e partì.
«Io soffeRto molto, io scappa, io fugge in bosco. Caminato molto. Io rubaRe cibo, ja, in pollai di fattoRie, mangiare ghiande di odiosi scoiattoli. Caminato per mille mila kilometri per skappaRe via da mia fattoRia. Te capisce perché io odia mukke e perché incubare con mukke la notte?»
Cesarino era molto concentrato sul racconto, in effetti anche lui avrebbe odiato le mucche e smesso di bere il latte.
«Va bene, ma non mi hai ancora raccontato come sei finito qui.»
«Facile! Quello non sa bene. Dormiva io.»
Dopo la fuga dalla sua fattoria Wild aveva vagabondato nelle foreste per ben due anni, mangiando i frutti che il bosco offriva e bevendo l’acqua dei ruscelli, rubacchiando dai pollai che trovava strada e facendo un po’ di elemosina ai passanti; effettivamente aveva sofferto molto la fame.
Un freddo giorno, dopo aver digiunato da molto tempo, si sentiva molto stanco e si appisolò ai piedi di una grossa quercia, dove le radici e il muschio gli facevano da materasso. In realtà non si era addormentato, era svenuto dalla fame e se non fosse stato per dei viandanti di buon cuore che passarono di là e lo trovarono mezzo morto sotto l’albero, probabilmente non parleremo di lui oggi. I tre passanti che erano in cerca di funghi, trovarono anzi un cane ma non riuscirono a svegliarlo, nemmeno passandogli una fetta di salame sotto il naso (parte del pranzo al sacco di uno dei tre). Con molta cura lo presero e lo avvolsero in una coperta e lo portarono di corsa da un veterinario.
Era solo denutrito, non aveva il cip di riconoscimento e bisognava trovargli una casa. Dei tre che lo avevano trovato nessuno poteva accoglierlo definitivamente, ma bisogna riconoscere che avevano fatto molto per lui salvandogli la vita.
Wild, ancora addormentato finì in un canile a Orleans, in attesa di essere adottato.
«Quando io sveglia non capiva niente! Tutti parlava strano, lingua diveRsaa da quella di me! E poi io chiuso in gabbia! Tu capisce? Io chiuso, ja ja! Povero io, povero!»
Cesarino anche in questa circostanza non poteva che capire: anche se per fortuna non aveva mai patito la sofferenza dell’essere chiuso per giorni interi dentro una gabbia, poteva ben immaginare il dolore che si vive in un canile.
«Provava a dire che io chiama me Wild, ja, ma nessuno capiva bene. Tutti chiama me Why, ma io preferisce, io con Wild non va d’accordo tanto. Io restato tanto tempo là con cani e umani di là, io cominciato a capire e parlare questa lingua ja, un poco pochetto, ma sempre tanti rrori fa io e sempre tanto ffamato e tRiste dentro gabbia. Umani gentili là, ma poco posto, poco cibo, io triste, altri cani uguale a io.
«Poi rriva Saaa’, noi due guardaaati, noi due piaciutiiii tanto, e… lei porta via mee! Jaaaa! Io un po’ meno triste ma sempre molto ffamato. Tu ora ha ancora crocchetta, ja?»
Finalmente Cesarino aveva capito, ora era tutto molto più chiaro.
Un sacco di volte aveva sentito dire a Sa’ che avrebbe voluto adottare un cane, che le sarebbe piaciuto avere un amico a quattro zampe da poter portare a spasso nei boschi, da poter viziare un po’, ma Cesarino non l’aveva mai presa sul serio perché lo diceva da anni ma alla fine non si era mai decisa.
Invece… eccolo là, un nuovo membro della famiglia.
Si doveva riconoscere che bisognava insegnargli un sacco di cose a Why, al di là della lingua (alla fine era buffo sentirlo parlare così e, bene o male, ci si capiva), però doveva imparare un po’ di buone maniere feline, cioè che non si scappa per correre in tondo mentre si sta parlando con qualcuno, che non si chiede continuamente cibo, che si ringrazia quando si riceve un regalo… ma tutto sommato quel cagnetto bianco con le macchie nere era simpatico, non sbavava e non mordicchiava le scarpe, non attaccava i gatti e poteva essere un buon compagno di avventure.
Quella prima fuga insieme dalla finestra della cucina era un buon inizio.
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