Se devo essere sincero non so bene come sia successo, so solo che un giorno “sono arrivato”.
Non posso nemmeno dire di aver visto qualcosa perché gli occhi si sono aperti diversi giorni dopo che “sono arrivato”, ma ricordo precisamente l’odore della mia mamma, il gusto del suo latte delizioso, il calduccio accogliente del nostro giaciglio e il tremendo rumore che avevo intorno.
I primi giorni sono stati molto confusi, non ricordo quasi niente.
Quando finalmente i miei occhi di gatto si sono aperti capii che ero in una casa, piuttosto grande, che ero sistemato in un cestino di vimini in un angolo tra il termosifone e la credenza, ma sopratutto vidi la mia mamma: una bellissima micia tigrata marrone che ogni tanto lasciava me e la mia sorellina per andare a mangiare e per poi tornare subito dopo.
Passavo il mio tempo a dormire, succhiare il latte e ogni tanto a giocare coi baffi della mia mamma o la coda della mia sorellina.
Ogni tanto un’umana grande e grossa veniva a guardarci, poi venivano altre due umane più piccole che gridavano e facevano chiasso.
All’inizio, finché eravamo piccoli-piccoli, nessuno veniva a disturbarci, poi le cose cambiarono. Quando io e la mia sorellina fummo abbastanza forti per uscire dal cestino da soli non avemmo più un momento di pace, tranne a notte fonda.

Ero sistemato in un cestino di vimini in un angolo tra il termosifone e la credenza


La mattina andavamo in giro per la casa, per ispezionarla e per giocare, spesso la nostra adorata mamma veniva con noi e ogni momento era buono per un buon consiglio o un prezioso insegnamento: “attenzione, quello non si mangia”, “saltare da lì è pericoloso”, “là dentro restate incastri”, “per cacciare le mosche bisogna restare appiattiti”, “un buon felino deve sapere fare un agguato” e via dicendo; quei mesi sicuramente stati i più istruttivi della mia vita.
Se ci accadeva un piccolo incidente la mamma era subito lì per consolarci leccandoci, se avevamo delle domande lei aveva sicuramente le risposte, se eravamo stanchi ci portava per la collottola al cestino sfamandoci con il suo buon latte e se eravamo in pericolo ci proteggeva.
Ma non sempre eravamo liberi di fare quello che ci piaceva: spessissimo si impicciava quella grande e grossa umana, ci sgridava perché non potevamo andare sotto il suo grande letto o infilarci le suo armadio tra i vestiti, e di frequente ci sculacciava. Non ho mai capito il perché di quel gesto.
«Chi è quella, mamma?»

«Quella è un’umana femmina, è lei che ci ospita, quella che si crede la padrona di tutto. Di umani ne ho conosciuti molti, quella lì anche se un po’ scorbutica non è male, ce n’è di peggiori. Se vi dovesse capitare un umano cattivo, brutale o violento non fatevi scrupolo a scappare.»
«Ma perché mamma?! Non staremo per sempre insieme? Noi vogliamo restare qui con te!»
«No ed è normale che sia così. I gatti domestici come noi dopo quattro mesi di vita vengono adottati.»
«E non ci vedremo mai più? Non voglio!»
«Vi assicuro che anche se fossimo dei gatti selvatici difficilmente resteremmo tutti insieme: una volta che i cuccioli sono cresciuti ognuno va per la sua strada. Non preoccupatevi, io vi avrò sempre nel mio cuore, e voi vi ricorderete sempre di me, e di tutto quello che vi ho insegnato.»
E aveva ragione, non ho mai dimenticato la mia mamma e di nessuno dei suoi insegnamenti, nemmeno di qual è l’angolino migliore per dormire sul divano o di come bisogna gonfiare il pelo quando ci si arrabbia.
Passavamo così le nostre mattinate, a bighellonare per la casa, a rincorrerci e ad ascoltare la nostra mamma, cercando di scappare da quell’umana grande, grossa e antipatica.
Il peggio del peggio arrivava il pomeriggio.
Ad un certo orario tornavano da scuola le due piccole umane e mettevano letteralmente tutto sottosopra: strilli, colpi, tonfi, oggetti lanciati, di tutto un po’; quelle due maleducate bambine non avevano riguardo per niente e nessuno. La loro cameretta era un campo di battaglia, i loro giocattoli erano sparsi per tutto il pavimento e bisognava saltarli come ostacoli, libri e quaderni di scuola erano gettati alla rinfusa sotto il letto, quasi tutti i pupazzi e bambole erano tagliuzzati e pitturati, una vera e propria e baraonda.
Non c’era nessuna attività che le soddisfacesse per più di un quarto d’ora se non fosse guardare inebetite i cartoni animati, occupazione preferita seconda solo a tormentare noi animali.
Eravamo quattro gatti in casa: Lilli la nostra mamma, tigrata marrone, noi due cuccioli (io tigrato rosso e mia sorella simile alla nostra mamma ma con una macchia bianca sul petto) e Lindo, un grande, vecchio e scorbutico persiano nero.
Lindo non si faceva nemmeno avvicinare: appena sentiva arrivare le bambine si andava a sistemare sopra l’armadio e là restava fino a che le due pesti non andavano a letto; per noi piccoli l’armadio era troppo alto, non riuscivamo a saltarci sopra. La mia mamma graffiava le bambine se esageravano con gli scherzi e quando non ne poteva più se ne andava in terrazza perché le due piccole umane non ci potevano andare. Quindi i bersagli preferiti di quelle due diavolesse eravamo noi cuccioli.
La nostra mamma ci aveva spiegato che dovevamo imparare a cavarcela da soli, dovevamo nasconderci o difenderci. Io e mia sorella provavamo a rintanarci sotto la credenza o dietro il divano, ma quelle due seccatrici riuscivano sempre a prenderci. Per quanto ci difendevamo con graffi e morsi, eravamo ancora piccoli e le nostre unghie non erano ancora abbastanza massicce per spaventare quelle due umane e dovevamo sopportare i loro scherzi.
Ci legavano palline di carta stagnola alla coda, ci rinchiudevano dentro a delle scatole facendo finta che eravamo pacchi postali da consegnare, ci vestivano come delle bambole, giocavano a fare le veterinarie, ci lanciavano sul letto, ci mettevano nell’acqua per farci il bagno, ci facevano degli spaventi per farci saltare, ci rinchiudevano nei cassetti, ci legavano alle zampe dei nastri e ci muovevano come se fossimo marionette.
Solo quando quelle due andavano a dormire c’era un po’ più di pace e solo con quella pace Lindo, il grosso gatto persiano scendeva giù dall’armadio.
Era molto vecchio, poteva essere il nostro bis-bis-bis-bis-bis-nonno e da tantissimi anni viveva in quella casa; almeno così diceva lui.
Era molto scontroso e dopo che aveva passato mezza giornata rintanato sopra a un mobile lo era ancora di più ed era quindi meglio sparire dalla circolazione senza fare domande.

Lindo era l’unico gatto che poteva salire sul letto dell’umana grande e grossa senza farsi sgridare ed era anche l’unico che veniva spazzolato amorevolmente tutte le sere.
La mia mamma mi aveva raccontato che la famiglia degli umani, prima che venisse ad abitare in questa casa, viveva in una villa con il giardino e Lindo poteva entrare e uscire a suo piacimento. Avrei voluto fargli tante domande, sapere se i cani sono davvero tutti cattivi, se veramente i gatti mangiano i topi, se è vero che il legno degli ulivi è buono da leccare, se conosceva delle mosse segrete di combattimento… ma tutte le volte che lo avvicinavo per parlargli mi fissava con quei suoi grandi occhioni gialli e mi faceva una gran paura. A noi cuccioli parlava solo per sgridarci, dirci che in casa c’era già abbastanza confusione per colpa di quelle due piccole umane, che dovevamo smettere di giocare con gomitoli di lana e comportarci da gatti adulti. Allora io e mia sorella andavamo a rintanarci nel nostro cestino, aspettavamo che Lindo se ne andasse a dormire con l’umana grande e grossa per poi finalmente uscire a notte fonda, evitando le camere da letto.
Allora sì che potevamo fare tutto quello che volevamo! Salone, cucina e bagni erano il nostro regno, bastava non usare le palline con il sonaglio, ma potevamo dare libero sfogo a ogni nostro istinto, avevamo fino all’alba per divertirci e la mamma con noi per rispondere alle nostre domande.
Ogni tanto l’umana lasciava la gattaiola aperta e potevamo anche andare a giocare sul terrazzo, un gran bel terrazzo pieno di vasi con i fiori all’ottavo piano di un palazzo che aveva una bellissima vista su tutta la città di Lione.

Ci legavano palline di carta stagnola alla coda, ci rinchiudevano dentro a delle scatole facendo finta che eravamo pacchi postali da consegnare, ci vestivano come delle bambole, giocavano a fare le veterinarie, ci lanciavano sul letto, ci mettevano nell’acqua per farci il bagno, ci facevano degli spaventi per farci saltare, ci rinchiudevano nei cassetti, ci legavano alle zampe dei nastri e ci muovevano come se fossimo marionette.

Una notte di fine maggio mia sorella chiese a nostra madre:
«Perché noi non abbiamo un nome?»
«Saranno i vostri umani a sceglierlo per voi. Tra noi animali non ce n’è quasi mai bisogno. Noi ci riconosciamo grazie all’odore, alla voce, anche dal rumore che facciamo quando ci spostiamo. Spesso un nome è superfluo.»
«Mamma, io vorrei stare con te» dissi io e lei mi leccò la testa.
«Non ti preoccupare figlio mio, io sarò sempre con voi, nel vostro cuore. Sono certa che l’umana grande e grossa ha scelto per voi delle brave persone. Ha tanti difetti, ma ho avuto altri cuccioli e sono sempre stati adottati da brave famiglie.»
In quel momento mi sentivo molto triste, perché da un lato avrei voluto andare via da quella casa dove non si poteva fare niente, da quelle due piccole umane che non facevano altro che dispetti, dall’altro sapere di dover lasciare mia madre mi addolorava profondamente.
«Gli umani non fanno come i gatti? Non fanno adottare i figli dopo qualche mese che sono nati? Perché quelle due piccole umane teppiste non vanno via?» chiesi con rabbia.
«Teppiste?!? Chi ti ha insegnato questa parola? Scommetto che è stato Lindo… Comunque no, gli umani non lasciano andare via i propri cuccioli quando sono piccoli. Sono i cuccioli che se ne vanno via da soli, ma quando sono molto grandi. Scoprirai che gli umani sono diversi da noi, tu e tua sorella lo scoprirete molto presto.»
La mia mamma rientrò in casa e ci lasciò giocare fuori. Non voleva dare a vederlo ma era afflitta: proprio quella mattina aveva sentito l’umana grande e grossa prendere accordi con due persone per l’adozione di noi cuccioli, saremmo partiti dopo due settimane da quella sera. Non volle dirci nulla per non preoccuparci, tanto non ci si poteva fare niente, aspettò fino all’ultimo per parlarci.
«Ascoltatemi bene, ma proprio bene» e noi rizzammo le orecchie «tra tre giorni una famiglia di qui vicino verrà a prendere te figlia mia, mentre dopodomani arriverà una ragazza da Parigi per te ragazzo mio.
Mi raccomando: non dimenticate nulla di quello che vi ho insegnato, segnate bene il vostro territorio, siate amichevoli ma non troppo, ricordate che siete voi che comandate. Se ci sono altri animali in casa cercate di stabilire un rapporto cordiale e non ci saranno problemi. Molto probabilmente i vostri umani saranno delle brave persone, non preoccupatevi; ma nel caso dovesse esserci qualcosa che non va, non esitate a tagliare la corda, scappate. Meglio essere un gatto randagio in un parco che un gatto maltrattato in casa.»
Quegli ultimi giorni nella casa di Lione furono veramente duri.
Io stavo attaccato a mia mamma, il più possibile. Mi dispiaceva lasciare mia sorella, ma non così tanto come pensavo.
Credo che anche alle due piccole umane avessero annunciato la nostra imminente partenza perché se prima erano fastidiose ora erano diventate uno strazio e non ci lasciavano un istante di tregua: ci strattonavano ogni minuto, addirittura ci avevano messo un guinzaglio per trascinarci in giro per casa e volevano perfino che facessimo la doccia con loro.
L’ultima notte in quella casa volevo solo accoccolarmi con la mia mamma.
Nella testa giravano un sacco di pensieri che mi tormentavano, soprattutto avevo paura che la mia futura umana fosse una vecchia grassa, sporca donna e avevo timore di dover condividere una casa con un cane cattivo e puzzolente. Mi angosciavo all’idea che nella mia vita non avrei mai corso in un giardino e non avrei mai vissuto un’avventura.
Questi e altri pensieri terrificanti mi annebbiavano la testa, credo molto simili a quelli di mia sorella, quando con nostra grande sorpresa Lindo venne fino al bordo del nostro cestino e disse gentilmente:
«Ragazzi ricordativi: la “fortuna” realizza una parte della vita, l’altra parte costruitevela da voi. In ogni caso in bocca al lupo» e con queste enigmatiche parole spiccò un agile salto, nonostante la sua vecchia età, andò fino al suo posto sopra l’armadio e non disse più una parola, ma quella notte rimase con noi, non andò a letto con l’umana grande e grossa.
Sembrò che l’alba arrivasse molto più rapidamente degli altri giorni e anche la mattina ci sembrò passare veloce.
L’umana di Parigi arrivò poco dopo il rientro delle due bambine da scuola, quando in casa c’era già una bella confusione e io e mia sorella cercavamo di scappare dalle grinfie delle due piccole pesti.
Il caso volle che quando l’umana entrò dalla porta d’ingresso io mi ero nascosto sotto un mobile del salone sistemato proprio davanti all’entrata e non dimenticherò mai l’espressione di stupore e irritazione che ebbe l’umana di Parigi entrando in casa.
Effettivamente c’era una bel disordine e baccano, per noi era normale a quell’ora, ma per quella sconosciuta era evidente il fastidio.
La osservai: per fortuna non era per niente vecchia, aveva dei lunghi capelli riccioli, portava con se un odore di pulito e teneva un grosso trasportino nero dall’aria comoda.
L’umana grande e grossa ci mise un po’ per calmare l’atmosfera e passare alle presentazioni; quelle due bambine vollero assolutamente presentare tutti i gatti della casa, perfino Lindo fu tirato giù da sopra l’armadio con l’aiuto di una scala mentre l’umana di Parigi continuava a dire “lasciateli tranquilli, se i gatti si sono così nascosti forse non vogliono essere disturbati…”, ma non fu ovviamente sufficiente per dissuadere le due piccole pesti.
Io fui l’ultimo ad essere presentato.
Fui letteralmente lanciato addosso all’umana di Parigi che mi accolse con delicatezza, mi guardò accarezzandomi la testa ma d’istinto fuggì subito per andare nel cestino con la mia mamma e mi piacque molto il fatto che lei non volle trattenermi in braccio.
Dopo fu servito un tè con dei biscotti e, mentre io me ne stavo acquattato nel mio cestino, quelle due diavolesse non smettevano di dare spettacolo, fino ad arrivare a camminare a piedi nudi sul tavolo tra le tazze e i piattini. Osservavo le reazioni della mia futura umana e la vedevo sempre più vicina al limite dell’esplosione…
«Bambine» aveva provato a dire «non mi sembra tanto carino fare tutto questo chiasso e ancora meno camminare sul tavolo in mezzo alla merenda, non credete?»
«E perché no?» avevano risposto con strafottenza continuando a fare il loro porci comodi, seguite da uno sguardo indulgente della loro madre.
A un’oretta dal suo arrivo giunse infine il momento di partire, lo sentii arrivare nell’aria, se ne accorsero tutti.
L’umana di Parigi si alzò, prese la sua borsa e andò a cercare il trasportino. Io tuffai la testa nella pelliccia calda e morbida della mia mamma che mi diede le ultime leccate sussurrandomi che tutto sarebbe andato bene, affondavo le unghie nella coperta del cestino sperando di fondermi con esso, quando mi sentì afferrare brutalmente ed ebbi appena il tempo di guardare un’ultima volta mia sorella e mia mamma che ricambiarono con uno sguardo dolce per incoraggiarmi.
A prendermi erano state le due piccole umane che non smettevano di gridare «No, no, non glielo diamo, è nostro, il gattino non va via!» e mi chiusero dentro una scatola di scarpe per poi sbattermi sotto al loro letto.
L’intervento dell’umana di Parigi fu provvidenziale e per una volta quelle due piccole streghe ricevettero una bella lezione.
A giudicare dal rumore dei suoi passi, la mia futura umana arrivò nella loro cameretta come un uragano e iniziò a parlare con voce ferma, ma senza urlare:
«Adesso basta! Gli animali non si trattano così! Siete due piccole bambine maleducate, arroganti e insolenti. Avrei voglia io di richiudervi in una scatola, buttarvi sotto il letto finché ne ho voglia, senza acqua, senza cibo e con poca aria, come fate voi con quelli che dovrebbero essere i vostri amici gatti» così dicendo mi tirò fuori da quella scatola puzzolente e con molta delicatezza mi fece entrare nel grande e comodo trasportino traforato, poi continuò «Mi stupisco di vostra madre che anzi che educarvi vi lascia fare il vostro comodo, senza regole, senza obiettivi. Ed ecco il risultato: due bambine senza amor proprio, senza rispetto per il prossimo, senza riguardo per gli animali; una vergogna. Raramente ho visto comportamenti così e sono molto dispiaciuta non solo per i gatti che vivono con voi che devono sopportarvi e spero vi graffino il naso, ma sono dispiaciuta soprattutto per voi che crescete vuote come vasi».
Lì per lì lasciò tutti a bocca aperta, poi quando realizzarono il senso di quanto detto le due bambine si misero a piangere e strillare come due sirene della polizia, l’umana grande e grossa ci accompagnò velocemente alla porta senza dire una parola, amareggiata e costernata. Non ne ho più saputo niente di loro, spero solo che quella sgridata sia servita a qualcosa.
Uscendo di casa ho cercato con lo sguardo la mia mamma, ma ne ho visto solo la coda. Vidi però Lindo sopra l’armadio che mi disse: «Stai tranquillo che quella è una buona umana!»
Per la prima volta uscivo da quella casa, ero impaurito, eccitato, preoccupato, rattristato, curioso… tante emozioni tutte insieme.
Dalla rete del trasportino vedevo un sacco di cose che non avevo mai visto, annusavo tanti odori che non avevo mai annusato.
Arrivammo in un posto strapieno di persone e ci sedemmo in quello che sembrava una poltrona molto piccola e di queste poltrone ce n’erano tante e in fila l’una dietro l’altra, un posto stranissimo e non tanto ben odorante. Non mi piaceva tanto. Poi il sedile si mosse, tutta la stanza si mosse. Ebbi paura e iniziai a tremare.
L’umana di Parigi mi tirò fuori dar trasportino con così tanto garbo che non pensavo che un umano fosse in grado di essere tanto delicato, mi mise nel suo grembo iniziando ad accarezzarmi. Mi sentì subito a mio agio e senza quasi accorgermi iniziai a fare le fusa.

Per la prima volta uscivo da quella casa, ero impaurito, eccitato, preoccupato, rattristato, curioso… tante emozioni tutte insieme.

«Ma come sei bello» disse l’umana «Sono contenta che siamo insieme e lo saremo per molto tempo, spero che sarai un gatto felice con me.»
Avrei voluto ispezionare quel luogo strano dov’eravamo, quegli odori particolari e mai sentiti prima, sapere di più di quelle vibrazioni che arrivavano dalla poltrona, ma stavo così bene su quelle gambe che decisi di appallottolarmi lì ed ascoltare se l’umana aveva altro da dire.
In realtà mi sussurrò una montagna di altre “cose” che ascoltai con attenzione come quando la mia mamma mi insegnava le cose importanti; mi spiegò che eravamo su un treno e che stavamo andando da Lione a Parigi dov’era il suo (ora nostro) appartamento e dove mi aveva preparato un tiragraffi a tre piani, mi disse che era italiana e che viveva in Francia per lavoro, mi promise che tutte le volte che sarebbe tornata in Italia mi avrebbe portato con sé, mi descrisse il bel guardino della casa in Italia dove sarei potuto uscire quando saremo andati in vacanza, mi raccontò degli altri suoi amici animali, dei suoi allievi a scuola e della sua amica Sa’, mi spiegò che ogni tanto sarebbe stato necessario prendere l’aereo o fare lunghi viaggi in macchina per andare in Italia, mi raccontò della sua musica preferita, che le piaceva guardare i film la sera e che se volevo avrei potuto guardarli con lei sul divano, mi descrisse così bene alcuni parchi di Parigi che mi venne voglia di vederli con i miei occhi…
Penso che gli altri passeggeri l’abbiano presa per matta a vederla parlare a un gatto.
A forza di raccontare giungemmo a destinazione e mi rimise nel cestino, ero contento che quella poltrona vibrante in quella stanza allungata non fosse la mia nuova casa come avevo pensato all’inizio.
Ci infilammo in quello che poi ho scoperto essere un taxi e arrivammo a casa poco dopo.
L’appartamento non era grande e prima di tutto mi infilai dietro il divano, così, per sicurezza.
Ancora oggi mi nascondo là dietro quando in casa entra gente che non conosco, è il mio nascondiglio preferito.
L’umana mi lasciò fare, mi diede il tempo di ambientarmi.
Quando mi sentii pronto venni fuori e frugai dappertutto, iniziando dall’armadio che, con mia piacevole sorpresa, non era un luogo proibito.

Poi sotto e sopra il letto, tutte le mensole con i libri (e ce ne sono tante), sopra il tavolo, dentro il bagno (e ovviamente dentro il cestino dei panni sporchi), dentro il mobiletto basso dei saponi e dei trucchi, poi in cucina, sopra il frigorifero, dietro il forno, dietro al mobiletto dei documenti, sopra al porta-scarpe… tutto quanto.
Le cose più belle? Il mio tiragraffi a tre piani posizionato davanti a una grande finestra che domina il parco, a cui non è mai stato cambiato posto e da dove posso controllare tutto ciò che succede, la mia copertina rosa posizionata tra i cuscini del letto e… il silenzio! Non c’erano più quelle due diavolesse a rompere le scatole!
«Diciamo che inizi ad abituarti alla casa!» disse l’umana dopo un bel po’ che facevo le mie ispezioni «Ma dimmi, come ti chiami?»
Mi fermai e salì sul ripiano più alto del tiragraffi. Questo era un bel problema… qual era il mio nome?
Lindo mi aveva avvertito: alcuni umani danno dei nomi un po’ stupidi ai gatti. Non perché sono dei nomi brutti ma perché non si abbinano bene al carattere dei proprietari, e io non mi sentivo per niente di chiamarmi Pallino, Fuffi, Pumba, Sushi, Tom, Thor o Silvestro.
«Io mi chiamo Elea. Siccome sei rosso avevo pensato a Romeo o Ernestino, avevo stabilito di conoscerti prima di decidere. Ma ora che ti ho davanti e visto come ti muovi… non mi sembra che hai il muso da Romeo o Ernesto»
“E menomale!” ho pensato, perché non mi piaceva nessuno dei due nomi.
«A guardarti bene hai il nasino con una gobba, che ne dici di Dante?»
“Per carità!!” pensai.
«Sai cosa? A guardarti ancora meglio… anche se sei un cucciolo… sembri già che ti muovi da gran signore, da quello che comanda, da imperatore… l’imperatore Giulio Cesare, poi il rosso è un colore romano, no?»
“Ecco sì! Un imperatore!”
«Giulio Cesarino, l’imperatore dei Lilas, che te ne pare?»
«Miau!» quello sì che mi piace!

Io ed Elea siamo da subito entrati in sintonia.
È da sempre molto attenta alle mie necessità, dall’acqua fresca alla copertina rosa lasciata sul letto senza pieghine, dalla porta dell’armadio aperto per farmici andare a dormire dentro quando fa freddo alle passeggiate sul pianerottolo per annusare gli zerbini dei vicini, sta attenta che la ciotola delle crocchette sia ben fornita e non posso lamentarmi in fatto di attenzioni, coccole e giochi.
La cosa più importante è che non mi lascia mai da solo quando parte, mi porta sempre con sé, ha mantenuto la promessa: in Italia a Lerici dei suoi genitori, in vacanza in Normandia o a Lille, a Modena, a Milano da Sa’, mi porta ovunque, anche a sciare (attività priva di ogni interesse per me, ma così vado a trovare mio cugino Gigi, è lui che guida il gatto delle nevi alle Deux Alpes).
Se proprio devo dirla tutta ogni tanto litighiamo. Magari torna tardi da lavorare allora io le faccio i dispetti e le tiro fuori tutte le mutande dal cassetto e finisce che mi sgrida, oppure litighiamo perché io scappo dalla finestra aperta per cercare le avventure e lei disperata mi viene a cercare al parco sotto casa. Anche se esco dalla finestra, o se mi allontano dal giardino in Italia, sa che io torno sempre, ma lei si arrabbia lo stesso: dice che non devo uscire perché fuori ci sono i “mostri” (penso che lei intenda le automobili) e ha paura per me.
In ogni caso posso dire che ci volgiamo bene, e dov’è una c’è l’altro.
Sono stato fortunato a finire con un’umana come Elea, ma lei è stata ancora più fortunata a trovare un gatto come me, un gatto come Cesarino.
L’unico Giulio Cesarino, l’imperatore dei Lilas.

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L’unico Giulio Cesarino, l’imperatore dei Lilas.

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